Toni  Pecoraro
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Un viaggio nel labirinto, per ritrovarsi finalmente


Anche ad una prima, veloce lettura appare chiaro che il tema principale di tutto il lavoro artistico di Toni Pecoraro è rappresentato dal labirinto.
Questa struttura particolare è così frequentemente raffigurata dall'artista da apparire come la sua cifra personale, quasi ne fosse la firma.
Non è allora la raffinata e complessa tecnica incisoria, fatta dal sapiente accostamento di acquaforte, acquatinta e vernice molle, e l’ardita manipolazione di materiali, che ci portano a dare una sicura paternità alle sue opere, quanto invece la presenza predominante del labirinto.
Si potrebbe forse dire che l’uniformità iconografica rende le composizioni di Pecoraro ripetitive, penalizzandone la fantasia, se non fosse che nessuna cosa può essere decifrata finché resta unica, e ciò all’ artista è ben chiaro.
Proprio per comprendere quale è la sua relazione con questa struttura primigenia, Pecoraro ridisegna continuamente il “suo” labirinto.
D’altra parte, storia e simbologia sono così complesse e dispara­te da diventare per chiunque fonte di una serie di sorprendenti scoperte.
Ed è per mezzo di tali scoperte, applicando il metodo analogico, che riusciamo ad entrare nel cuore e nell' anima dell’ artista, così da meglio intendere il senso e il fine del suo continuo viaggio all’interno del labirinto.
Ne “Il libro dei labirinti.
Storia di un mito e di un simbolo”, una delle opere più importanti dedicate a questo argomento così affascinante, Paolo Santarcangeli ci offre una messe tale di dati che, forse non casualmente, il lettore arriva a provare la vertigine delle grandi altezze, e anche dei grandi, insolubili misteri.
Proprio perché simbolo, il labirinto è talmente ricco di significati che, qualunque via si voglia imboccare, inevitabilmente ci troviamo la strada sbarrata dal muro del suo opposto, altrettanto allettante e in cui, guarda caso, potremo scoprire la porta di un altro percorso.
Già quando siamo di fronte all’ingresso del labirinto, in attesa di intraprendere un viaggio che non potremo che fare in solitudine (perché è da soli che si nasce e che si muore), si presenta una serie di interrogativi che sono propri della struttura stessa del labirinto: mi è permesso di entrare (o invece l'accesso mi è vietato?), riuscirò a percorrere il viaggio, a vincere le difficoltà e i tranelli che mi aspettano, ad arrivare al centro? Ma poi, anche arrivato al centro, poiché le prove che mi attendono non sono affatto terminate, ecco nuove domande: troverò la strada per tornare indietro, per uscire “a rivedere le stelle”? È questo che devo fare, ogni volta che mi sono ritrovato, perché tale è il mio compito e il mio destino.
Consapevole però che si tratta sempre di una “vittoria” momentanea, poiché, come ha scritto Mircea Eliade.
“Sono perso nel labirinto, ma alla fine ho avuto l’impressione di essere uscito vittorioso da un labirinto.
È questa una esperienza che tutti hanno conosciuto.
Ma bisogna anche dire che la vita non è fatta di un solo labirinto: la prova si ripropone”.
Intraprendere un viaggio nel labirinto prevede quindi tutta una serie di possibilità negative: perdersi, non arrivare al termine (ma come capiremo di essere giunti al termine delle nostre fatiche?), non sapere che cosa mai troveremo (un premio o una condanna?) e, infine, non avere gli strumenti per potere ritornare indietro.
Ecco allora che il labirinto può diventare una prigione a vita, specialmente quando non ci incamminiamo in un labirinto unicorsivo, in cui cioè vi è un solo percorso obbligato, ma ci troviamo davanti a tanti incroci e ad una sola soluzione d’uscita.
È in questi ultimi labirinti, tanto ricchi di ramificazioni e di insidie da perdersi all’infinito, che si addentra Toni Pecoraro.
Non si tratta nel suo caso di un modello di iniziazione, ma di un viaggio in cui egli cerca la salvezza tentando di raggiungere la “sua” personale terra promessa, cioè la Sicilia.
C’è una sua affascinante incisione del 1997 (Labirinto 6) che esprime in modo paradigmatico questo desiderio insopprimibile: nel centro di un inestricabile labirinto l’artista ha posto un carretto siciliano, a rappresentare una delle immagini più peculiari di quella terra.
Non è casuale che egli abbia scelto come simbolo della volontà di recuperare le proprie radici non uno dei tanti fascinosi luoghi naturali della Sicilia o una qualche vestigia di passati splendori, ma un oggetto tanto umile e popolaresco.
Ciò che attende l’artista nel cuore del suo labirinto non è rappresentato né da ricchezze materiali né dal raggiungimento di verità iniziatiche o metafisiche: il premio è la certezza di riconoscere la propria terra e, al contempo, di esserne riconosciuto.
È in questo modo che il labirinto diventa per Pecoraro la metafora non dello sperdersi, ma del cercare e del trovare.
Eppure, non è sufficiente riappropriarsi della propria identità, se poi viene negata la possibilità di viverla; raggiunto il centro, bisogna avere a disposizione un filo di Arianna per potere tornare indietro.
Per rintracciare la strada, Pecoraro utilizza, come in un puzzle che si forma nel riflesso di cento specchi, l’orgoglio di appartenere ad una terra antica e di averne recuperato la memoria.
Di questa consapevolezza mi sembrano raccontare altre due sue opere recenti, il “Labirinto 20” e il “Labirinto 21”.
Qui le volute e le giravolte del labirinto sono al vertice di una erma che si erge, potente e orgogliosa, da una terra primigenia.
Come un cranio scoperchiato espone le sue circonvoluzioni cerebrali, così il labirinto diviene il cervello assoluto che racchiude in sé tutta la memoria di una terra in cui gli uomini hanno voluto confrontarsi con gli dei, e sono stati vinti, ma non domati.
C’è poi un'altra immagine che incontriamo con frequenza nelle opere di Pecoraro e che ha un significato simbolico molto forte: l’arcobaleno.
Ponte fra il cielo e la terra, fra gli dei e gli uomini, l’arcobaleno diventa soprattutto il felice presagio di un tesoro finalmente ritrovato.
E qui il tesoro a cui l’artista allude è, ancora una volta, quella terra antica, solare e magica, che ha lasciato in lui un segno indelebile e una nostalgia profonda.
Tramite fra il cielo e la terra, fra gli dei e gli uomini, è anche il libro, che spesso Pecoraro fa diventare il protagonista delle sue opere.
Ne “Il libro”, opera del 1995, utilizzando un linguaggio alchemico, cioè non palese, egli sembra volerci confondere o, almeno, rischiamo di non comprendere il senso vero di quanto ci viene mostrato.
Ciò che appare non è ciò che è: così il libro in primo piano è aperto, a significare che il suo contenuto è comprensibile a chiunque guarda.
Eppure non è così: nella pagina di sinistra l’artista ha raffigurato l’emblema XLII dell' “Atalanta fugiens” di Michael Maier, uno dei testi più oscuri della tradizione alchemica.
Qui l’alchimista, nelle tenebre dell’ignoranza, segue le orme della Natura (la donna con in mano fiori e frutti) per mezzo della ragione (il bastone), dell’ esperienza (gli occhiali) e della lettura (la lampada).
Al di dietro di questo libro comprensibile solo agli “iniziati” vediamo, in secondo piano, una miriade di tomi chiusi, contenenti cioè al loro interno segreti non ancora svelati: una teoria di libri su scaffali che sembrano (e sono!) le pareti di un ennesimo labirinto che, ancora una volta, permetterà ad ognuno di noi di perderci e di ritrovarci.
Non ci resta allora che intraprendere il viaggio, in semplicità e senza rumore, sapendo che arriveremo là dove ci condurranno le nostre forze, e che questo sarà il nostro premio.
Perché, come ha scritto Maier: “Chiunque cerchi di entrare senza chiave nel roseto dei filosofi è paragonabile a un uomo che voglia camminare senza piedi”.

Remo Palmirani

 

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